2016/2017
A PASSO DI FLOW
Giuseppe Agnello 1C
NOVEMBRE 2016
Salve a tutti!
Questo è il primo articolo della mia rubrica: ”A passo di Flow”, riguardante la musica rap. In poche parole sceglierò l'album più bello, secondo il mio parere, del mese e lo recensirò nella maniera più oggettiva possibile.
Detto ciò, oggi parlerò di un disco di En?gma intitolato “Indaco”, titolo che si riferisce a un concetto della sub-cultura New Age secondo il quale alcuni bambini, nati tra gli anni Sessanta e i primi del Duemila, nascerebbero con capacità speciali e quasi paranormali. Questi ragazzi sarebbero contornati da un'aura mistica di colore indaco che gli conferisce appunto il nome di ''bambini indaco'' o ''Indigos''. En?gma si ritiene uno di questi ragazzi, come fa subito intendere nella prima traccia dell'album:
“...Sembra strano che mi senta speciale, sin da quando in posizione fetale davo retta a quel trambusto mentale, a metà tra stentare e ostentare...”
L'album è molto equilibrato: con canzoni tranquille e quasi romantiche come “Oltre” o “Musa” altre più dure e incalzanti come “Lula” e “Indaco” e altre che costituiscono una via di mezzo tra i due poli, come “Rapa Nui” e “River Phoenix”. I beat (le basi) delle canzoni non sono per nulla scontati, con strumenti come chitarra, pianoforte, tromba e ovviamente l'insostituibile batteria. Inoltre, in questo album è pressoché assente l'autotune, se non nei ritornelli e in una traccia che lo sfrutta per tutta la sua interezza. Ciò vuol dire che la voce è quasi sempre senza modifiche.
I versi hanno un buon flow (scorrimento delle rime) poichè le metriche e gli incastri sono molto buoni, con parole di uso poco comune o appartenenti ad altre lingue, soprattutto allo spagnolo; i ritornelli delle canzoni coinvolgono l'ascoltatore e costituiscono, a parer mio, la parte più bella delle tracce di En?gma, grazie alla loro musicalità e ritmicità, senza tralasciare i testi che in alcune canzoni sono molto profondi. La mia canzone preferita nell'album è “River Phoenix”, della quale ho apprezzato molto il ritornello e il featuring con Gemitaiz, un altro rapper italiano, che, nonostante il sound insolito, non ha rovinato la traccia. Fino ad ora l'album ha solo un difetto: la durata, infatti è composto da solo 12 tracce, di cui uno skit (una parte in cui il cantante parla o inserisce un beat fatto da lui) della durata di 7 minuti. Perciò, tolto lo skit, le canzoni sono 11 per una durata complessiva di 32 minuti, che sono relativamente pochi per un album. Nonostante ciò penso sia un ottimo disco, metriche e flow molto buoni e basi coinvolgenti in quasi tutti i pezzi.
MAXISCHERMO
Luca Sardo 4 A e Samuele Bergamini 4 H
INFERNO
NOVEMBRE 2016
Ciao a tutti ragazzi! Bentornati nella nostra rubrica cinematografica, giunta ormai alla quarta edizione con lo stesso curatore. Da quest'anno però ci sarà una grande novità: a commentare i film usciti nell'ultimo mese infatti non sarò più da solo, ma sarò accompagnato da Samuele Bergamini; collaborazione che ci permetterà di approfondire meglio alcuni temi, come vedrete nel corso dell'anno.
Andiamo subito al dunque. Il film-evento di questo mese è sicuramente Inferno (2016, 121', USA), terzo capitolo della saga diretta da Ron Howard e composta da Il Codice Da Vinci e Angeli e Demoni; bisogna ammettere che non ha avuto praticamente concorrenza, dal momento che i mesi di settembre, ottobre e l'inizio di novembre sono solitamente avari di proiezioni interessanti.
Proseguendo sulla scia dei due film precedentemente citati, Inferno portava con sé aspettative molto alte. Se non possiamo dire che le abbia deluse, non possiamo nemmeno affermare che le abbia soddisfatte. La pellicola trae spunto, come già detto, dall'omonimo libro di Dan Brown e la trama è ben congegnata, anche se un po' troppo articolata. Tutto ruota intorno ad un problema di grande attualità, che però viene risolto in modo alquanto frettoloso dallo scienziato Bertrand Zobrist (interpretato da un ottimo Ben Foster): quello della sovrappopolazione. Come afferma lo scienziato stesso, la specie umana ha impiegato 50.000 anni per raggiungere un miliardo di individui, cento anni per raddoppiare la cifra e solo 50 anni per triplicarla: la Terra non può sopportare un ritmo così sostenuto. “L'umanità è la malattia, l'inferno è la cura”. Zobrist elabora quindi un piano per salvare l'umanità: diffondere un'epidemia di peste che dimezzi la popolazione e ristabilisca l'equilibrio naturale. E' proprio per sventare il folle disegno dello scienziato che Tom Hanks (alias Robert Langdom) cerca di risolvere prima degli altri l'enigma lasciato da Zobrist, che permetterebbe di attivare la sua micidiale invenzione. L'unica nota stonata del film è però proprio quella che ne ispira il titolo: l'Inferno di Dante. Tralasciando la mole di inesattezze storiche che si susseguono per tutta la durata della pellicola - come l'affermazione che la Divina Commedia sia stata composta dal poeta per conquistare Beatrice (tesi ardua da sostenere, dal momento che questa risulta morta una buona quindicina di anni prima che Dante cominci a scriverla) – il legame tra l'opera dantesca e gli enigmi del film si rivela spesso forzato e oscuro. Per approfondire meglio gli altri capitoli della saga, vi lascio all'articolo di Samuele; colgo l'occasione anche per fargli un grosso in bocca al lupo per quest'anno.
Voto: 7.5
Luca
Un saluto a tutti i lettori!
Prima di passare al confronto con altre pellicole, ritengo doveroso spendere ancora qualche parola sul film in questione. Esso garantisce allo spettatore ottimo intrattenimento a livello visivo, buon dinamismo, molteplici e articolati enigmi, che danno vita a scene di visioni e allucinazioni coinvolgenti. Eppure la sceneggiatura risulta talvolta carente. O meglio, non risulta conforme né al calibro dei personaggi sul set, né al carattere oscuro e velato, tipico dei romanzi di Dan Brown. Molto spesso, invero, si può notare come il film stesso spieghi, attraverso numerosi e veloci dialoghi , molte astrusità, mortificando in questo modo la capacità intuitive e deduttive dello spettatore. È evidente che questo atteggiamento, in una trama che dovrebbe basarsi su eventi ambigui e arcani, non può che portare punti a sfavore. Strana quindi la scelta di Howard, che preferisce direzionare la pellicola su scene di azione a ritmo incalzante, perdendo quasi del tutto quello stile caratteristico che lo aveva accompagnato in capolavori come “In the Heart of the Sea” e “Rush”. Una nota d’elogio va però spesa in favore della colonna sonora, composta ed eseguita, come per i due film precedenti della saga, da Hans Zimmer. Le note che accompagnano il film favoriscono un maggiore coinvolgimento dello spettatore, tenendolo in costante tensione emotiva.
Se l’uscita de “Il Codice da Vinci” aveva suscitato uno smisurato clamore, da cui derivarono critiche di ogni genere, dagli elogi più grandiosi alle stroncature più spietate, per “Inferno” la critica assume una posizione mediana, definendolo come un film banale a livello di story-telling e originalità, ma che compensa in fotografia e ambientazione. In conclusione, “Inferno” è un film che risulta, nel complesso, sufficientemente godibile e, come commenta Chris Newbould del The National, <<…esteticamente e cerebralmente soddisfacente per trascorrere un paio d'ore.>>.
Samuele
DIVERCITY
Alessandra Vita 3 A
NOVEMBRE 2016
Un saluto a tutti i lettori!
Quest'anno la rubrica God save the queer si trasforma in DiverCity: ciò avviene perchè sono cambiati i suoi fini. Negli anni passati questo spazio è stato utilizzato per trattare l'argomento della diversità solo in ambito sessuale, da ora in poi invece si parlerà della diversità in tutte le sue sfaccettature. Consultando un dizionario, alla voce diversità troveremo il seguente significato: <<Condizione di chi è considerato da altri, o considera se stesso, estraneo rispetto a una presunta normalità di razza, propensioni sessuali, comportamenti sociali, scelte di vita>>. Immaginiamo che proprio da questa definizione debba partire il nostro discorso. Probabilmente quando pensiamo al concetto di difformità lo ricolleghiamo subito alla discriminazione delle persone di altre etnie o di altri orientamenti sessuali. Ci concentriamo troppo sulla dissomiglianza oggettiva mentre ci soffermiamo poco sulla quella soggettiva.
Mi spiego meglio: se adesso avessimo davanti a noi un uomo di colore e un uomo albino noteremmo subito la differenza del colore della pelle, dunque questa è una dimostrazione di diversità oggettiva.
Un esempio di diversità soggettiva è invece il carattere di una persona: l'essere giudicato fuori dal normale dipende da chi è il percipiente.
In merito a quest'ultima categoria avevo letto qualche tempo fa un libro intitolato Stargirl, un best seller scritto da Jerry Spinelli. Il libro in questione narra la storia di una ragazza dell'Arizona e di come il suo essere un po' fuori dalle righe sconvolga l'abitudinarietà della scuola in cui si è appena trasferita, tanto da venir quasi considerata un pericolo. Provate a immaginare che effetto farebbe se in una scuola in cui tutti i ragazzi si vestono allo stesso modo e fanno le stesse cose si presentasse una ragazza vestita in modi stravaganti, con un topolino nella tasca e un ukulele a tracolla: di certo ci si sentirebbe persi, basterebbe quell'unica persona per far crollare ogni nostra certezza.
La protagonista del libro si chiama Susan, ma si fa chiamare Stargirl, spiegando ciò con la frase <<Io non sono il mio nome, il nome è qualcosa che indosso. Quando si consuma o mi sta stretto, lo cambio.>> (ma in fondo, come scriveva Shakespeare, <<Quella che noi chiamiamo rosa, anche con un altro nome avrebbe il suo profumo>>).
La trama è incentrata su come i compagni di classe di Stargirl, non capendo i suoi modi stravaganti, rendendosi conto di non riuscire a cambiarla ed essendone spaventati, cercano di soverchiare il suo carattere escludendola o prendendosene gioco, facendo sorgere in lei complessi di inferiorità e costringendola in ultimo a trasferirsi. Questo romanzo è molto attuale e lascia un messaggio alquanto duro: la società cerca di demolire ciò di cui ha paura. Siamo in un mondo in cui si teme quello che è diverso da ciò che siamo abituati a vedere, in cui si cerca di distruggere tutto ciò che in qualche modo rompe i nostri ritmi. La mentalità delle persone si fa sempre più chiusa. Essere se stessi ormai non è più un vantaggio, bisogna adeguarsi agli altri se non si vuole passare per strani, anche se costringerci a essere chi non siamo può diventare assai frustrante. É però necessario capire che, se non ci fosse la diversità, non esisterebbe la vita: se la notte non esistesse, sarebbe sempre giorno e, alla fine, anche la bellezza della luce del sole perderebbe il suo valore.
Se volete dedicarvi a una lettura piacevole e non troppo lunga, vi consiglio caldamente il libro sopra citato.
Alla prossima!
IDEE DI CARTA
Isabel Savioli 4 A
NOVEMBRE 2016
Quest’estate ho letto un libro che sicuramente molti di voi conosceranno: Città di carta, di John Green.
Per raccontarvi la trama del libro, ho bisogno di parlarvi del personaggio di Margo Roth Spiegelman, che, benché compaia solo in una breve parte all’inizio del libro e alla fine di esso, in qualche modo, tramite la sua assenza, tira le fila di tutta la storia.
Margo è una ragazza imprevedibile e spericolata, spesso si lancia in avventure che i suoi coetanei non avrebbero il coraggio di fare, e proprio per questo quando sparisce nessuno sembra preoccuparsene più di tanto: “Sarà un’altra delle sue pazzie, tornerà tra qualche giorno…”, ma così non accade. L’unico che si preoccupa per lei è Quentin, un ragazzo tutto studio e videogame che Margo trascina con sé la notte prima della sua scomparsa a vendicarsi di tutti quelli che le avevano fatto un torto.
Per Quentin e i suoi tre amici parte una ricerca disperata degli indizi che Margo ha lasciato, e che avrebbero costituito una mappa per ritrovarla. Quentin si rende presto conto che ogni ragazzo della scuola ha un’idea diversa di Margo, persino le sue amiche, persino lui che era il suo vicino di casa; tutti conoscono l’idea di Margo Roth Spiegelman, nessuno la persona. Ed è qui che arriviamo ad uno dei due concetti (a mio avviso) più importanti del libro; non arriveremo mai a conoscere veramente una persona, nella sua totalità, perché ci fermiamo a quello che VOGLIAMO vedere. A chi non è mai capitato di farsi un’impressione ben precisa di un amico, un parente o anche solo un conoscente e poi, generalmente nei momenti di difficoltà, per poi accorgerci che tale idea è completamente diversa dal vero essere di quella persona.
Green con una metafora, che non mi sento di rovinare, messa in bocca a Margo, spiega come siano proprio i momenti difficili che la vita ci impone a mostrare la vera natura di chi ci circonda: “All’inizio siamo navi inaffondabili. Poi ci succedono delle cose: ci perdiamo, ci facciamo male. E lo scafo comincia a creparsi. Ma una volta che lo scafo va in pezzi, la luce entra ed esce, ed è solo in quei momenti che vediamo davvero noi stessi, e gli altri.”. Quentin, tramite il processo di “mappatura” degli spostamenti di Margo, evolve come persona, si desta dall’intorpidimento della vita quotidiana, cerca di assumere una forma e di non trasformarsi in una persona di carta (anche questa metafora è di Margo): “Tutte quelle persone di carta che vivono nelle loro case di carta, che si bruciano il futuro pur di riscaldarsi.
Tutti rimbambiti dalla frenesia di possedere cose. Cose sottili e fragili come carta. E tutti altrettanto sottili e fragili. Ho vissuto qui per diciotto anni e non ho mai incontrato qualcuno che si preoccupasse delle cose che contano davvero.”
Arrivo quindi al secondo concetto importante: al giorno d’oggi, soprattutto per effetto dei social network, viviamo in un mondo basato sulle apparenze; ci creiamo un’immagine e cerchiamo di mantenerla il più a lungo possibile, anche se spesso arriviamo ad un punto in cui non siamo più in grado di mantenere le nostre stesse aspettative. L’invito che ho colto tra le righe è questo: non trasformatevi in persone di carta; cercate di conoscere veramente le persone, di andare oltre l’idea di esse, e vivete perché “il sempre è fatto di tanti adesso”.
CAVOUROCK
Alessandro Tassini 4 H
SULL’ONDA DELLE EMOZIONI
NOVEMBRE 2016
Al mondo ci sono musicisti, più unici che rari, paragonabili ad un buon vino: più il tempo li invecchia, più riescono a tirare fuori il meglio di sé e il loro gusto, la loro essenza, rimane inconfondibile: risulterebbe quasi scontato, retorico, sostenere che Joe Satriani sia senza ombra di dubbio uno di quei pochi. Si tratta di un’affermazione che coincide però con la realtà dei fatti. Oltretutto, per corroborare e avvalorare questa constatazione, basterebbe dare un ascolto alla sua ultima fatica discografica, intitolata “Shockwave Supernova”, e lasciarsi trasportare dal costante flusso di emozioni a cui si è sottoposti. Iniziamo subito. Il nostro viaggio ha inizio sulle note della title-track, un concentrato di misurata potenza, che nella sua linearità ben si presta a proiettare l’ascoltatore verso una realtà che di lì a poco evolverà sotto molti punti di vista. Nella successiva “Lost In A Memory”, le sonorità ambient si accentuano soprattutto nei primi fraseggi, per poi lasciare posto ai virtuosismi di casa Satriani ed essere nuovamente riprese in chiusura del pezzo. E’ poi il turno di “Crazy Joey”, irriverente brano in chiave maggiore, che ostenta il lato più allegro e scanzonato dell’artista. La quarta traccia, “In My Pocket”, è un brillante compendio di elementi fusion, country e blues che, per quanto io l’abbia trovata irresistibile, mi ha fatto quasi gridare al miracolo. Non ho altro da aggiungere, ascoltare per credere. FANTASTICA. A questo punto, il disco cambia ancora direzione, esplorando sonorità e ritmi esotici in “On Peregrine Wings”, un'altra song decisamente eclettica e perfettamente riuscita, che spiana la strada agli sperimentalismi orientaleggianti della seguente “Cataclysmic”. In questo caso, il funambolico chitarrista concede uno spazio più ampio a lick più intricati, badando leggermente meno all’atmosfera. Neanche il tempo di assimilare quanto ascoltato e già ci si ritrova nella vecchia America, quella delle serate con pianoforte e chitarra: “San Francisco Blue”, settimo brano del lotto, è un salto temporale tanto spiazzante, quanto altamente gradito. Non fate però troppo l’abitudine al mood, è solo una toccata e fuga: la successiva “Keep On Movin’”, presenta già connotati molto più moderni. Ancora una volta, la staticità non è contemplata e il pezzo è più volte sviato con grande maestria, per essere infine ricondotto sui suoi passi. A stabilizzare gli equilibri ci pensa “All Of My Life”, ennesima perla melodica, dove la tonalità minore è riproposta in modo piuttosto incisivo, anche se mai troppo malinconico. Un certo dinamismo torna a farsi sentire in “A Phase I’m Going Through”, che a dire il vero non aggiunge chissà cosa a quanto ascoltato in precedenza, ma si dimostra coerente e ben contestualizzata all’interno del discorso. La rockeggiante “Scarborough Stomp” non mi ha entusiasmato a livelli eccelsi, fatta eccezione per il bell’assolo di tastiera. Una prestazione leggermente sotto le righe che però non abbassa in modo significativo l’asticella qualitativa della release, fin qui decisamente molto alta. Il calo si conferma provvisorio quando la breve ma struggente “Butterfly And Zebra” fa capolino come il sole al termine di un pomeriggio piovoso, improvvisamente spazzato via una da un chiarore quasi insperato. Da segnalare l’eccezionale prova del vibrato di Satriani, che sembra dosare le note con il contagocce. I toni sembrano farsi più tenebrosi con l’intro della successiva “If There’s No Heaven”, ma l’atmosfera inizialmente cupa è il preludio di un brano che assume invece altre sfumature e scorre via con una certa spensieratezza, discostandosi da territori sonori più tetri. La penultima traccia, “Stars Race Across The Sky”, è un micidiale accostamento di sezioni spiccatamente melodiche dal gusto squisitamente introspettivo e fraseggi decisamente più veloci, anche se la natura più emotiva risulta predominante. L’ascoltatore giunge quindi all’epilogo del suo viaggio, con un pezzo che in nessun altro modo si sarebbe potuto chiamare, fuorchè “Goodbye Supernova”. Sfido chiunque a non rimanere estasiati dall’onirica bellezza di questo brano, che strizza l’occhietto ai Pink Floyd, dove figurano bending a dir poco eterni e atmosfere da giardino dell’Eden. Le note risuonano glaciali, mitigate dai risvolti ameni di una cornice straordinariamente soffusa. Quando ti ritrovi a tirare le somme di un disco del genere, puoi scegliere tra due alternative:
Adempiere al tuo dovere di recensore e portare a termine il tuo lavoro;
Riascoltare in loop tutto l’album, fino a consumarlo.
Ora, se non fosse che, da redattore de “I Resti Del Camillo”, sono chiamato a dare il buon esempio, ora sareste tutti qui a farmi le pulci perché ho pubblicato un articolo incompleto. Perciò, tornando al capolavoro di cui vi ho parlato, sarei bugiardo se non ammettessi che, nell’ascoltare cotanta meraviglia, ho provato emozioni che raramente negli ultimi anni un disco è riuscito a trasmettermi. Sentire così tanta ispirazione e tanta sostanza, entrambe concentrate in poco più di un’ora di musica, non capita tutti i giorni. Pertanto, almeno per una volta, ho intenzione di sorvolare su quei pochissimi punti a sfavore che, a mio modesto parere, ho individuato nella release. Di conseguenza, la mia valutazione finale (non che a Satriani gliene importi qualcosa) può essere una e una sola.
Quest’ album è semplicemente SUBLIME.
Voto: 10/10.
UN MEZZO PER NESSUN FINE
DICEMBRE 2016
Una scarica di adrenalina e genialità ti colpisce immobilizzandoti, le tue sinapsi vengono bombardate da un flusso costante di informazioni nevrotiche e apparentemente insignificanti, il tuo intelletto è catapultato in un universo a sé stante, dove regna un’armonia sinistra e mutevole. La frenesia ti incalza a livelli umanamente inconcepibili e, una volta intrapresa la tua folle corsa verso il punto di non ritorno, pensi di essere spacciato: la tua mente sembra non avere scampo. Eppure, quando il serbatoio della tua tolleranza è ad un passo dal lasciarti a piedi, ecco che interviene una sorta di forza illuminante a rischiararti le idee, facilitandoti l’assimilazione di dati altrimenti imperscrutabili.
Tutto normale, se stai ascoltando un disco dei Destrage.
I loro brani sono simili ad un pugile instancabile che vibra cazzotti degni di Bud Spencer, senza concedere la benchè minima tregua a chi li sta ascoltando. Questo però non deve intimorire, perché come disse un popolare menestrello: «Il bello della musica è che quando ti colpisce, non fa male». E c’è ancora gente che si stupisce per il fatto che abbia ricevuto un premio Nobel, mentre io mi stupisco che non se lo sia aggiudicato prima. Ad ogni modo, mi sto perdendo in divagazioni fin troppo infantili; meglio passare alla recensione di “A Means To No End”, terzo album dell’italianissima band sopra citata, il primo pubblicato sotto la Metal Blade Records.
L’apertura in chiave semiacustica è affidata alla title-track, efficace e atmosferico preludio della disarticolata energia che si accinge a diventare filo conduttore dell’intera release. Già la successiva “Don’t Stare At The Edge” fa capire piuttosto chiaramente di che pasta sono fatti i nostri, sfoderando una compattezza sonora in cui l’intensità riempie di note ogni decimo di secondo. Per la serie, “Come sfuggire all’horror vacui”. E’ poi il momento dell’altro singolo “Symphony Of The Ego”, il cui main riff si impone nello stile di una sibilante rasoiata, di chiara memoria thrash metal. Non ho saputo resistere alla tentazione di scapocciare ignorantemente durante il prepotentissimo breakdown, che si abbatte come una furia prima di cedere il posto ad un bridge dai toni idilliaci. A questo punto, fa la sua comparsa “Silent Consent”, brano che si presenta come un’imponente cavalcata dalle marcate influenze groove metal, per poi uscire dalla carreggiata e assumere le cervellotiche tinte mathcore divenute marchio di fabbrica del precedente album “Are You Kidding Me? No.”. Addirittura, i feroci blast beats del mostruoso batterista Federico Paulovich portano ad un temporaneo sconfinamento in territori black metal. Arriva quindi il turno di “The Flight”, un accattivante concentrato di pura potenza, che non tarda a camuffarsi temporaneamente entro risvolti più riflessivi, chiudendo infine in grande stile. Ammetto di essere rimasto spiazzato dalla slayeriana apertura “Dreamers”, poi fagocitata da un’evoluzione melodica a cui subentra in maniera molto azzeccata un riff di matrice southern metal, che da amante del genere non potevo non apprezzare. I toni sono poi smorzati da “Ending To A Means”, il cui titolo si pone come complemento della title-track. A parte questo gioco di parole, riscontrabile persino dal più ottuso degli osservatori, l’unico pezzo strumentale del disco si contraddistingue per la sua imponente decadenza progressive, nonché per gli onirici accordi sospesi posti in chiusura, che sembrano riecheggiare nel vento. L’astrattezza perdura con “Peacefully Lost”, perfetta sintesi tra atmosfere sognanti e riflessive, amalgamate con una degenerazione mathcore. Indubbiamente il brano che ho preferito di più all’interno dell’album. Con “Not Everything Is Said”, si torna a pestare duro: l’intro è quasi monopolizzata dal rullante, che sembra annunciare la debordante potenza sul punto di sprigionarsi. Il refrain è melodico senza sdolcinate esagerazioni e il pezzo si dimostra convincente. “To Be Tolerated” rappresenta nella sua intricatezza il lato più contemporaneo della band, fondendo elementi djent e spunti melodici di livello assolutamente apprezzabile. Arriva il momento di “Blah Blah”, eclettico svarione di impegnativa portata, che conferma e accentua l’essenza modernissima del gruppo, già parzialmente esternata in precedenza. La successiva “A Promise, A Debt” è dominata da chitarre acustiche intrecciate ad ardite armonie vocali e denota assoluta padronanza non solo della tecnica, ma anche di un accurato studio teorico. Onestamente, mi aspettavo qualcosa di più dall’ultima traccia “Abandon To Random”, che esplora lidi cacofonici senza però riuscire ad imprimere il suo marchio, perlomeno al pari degli altri brani del lotto.
La mia impressione è che i Destrage abbiano posto le premesse per un percorso di maturazione: trovo molto significativo il fatto che abbiano deciso di non realizzare un clone di “Are You Kidding Me? No.”, accantonando così determinate sfumature psicotiche e irriverenti. Occhio, ciò non significa che si siano messi a suonare il kazoo in 4-bit. Semplicemente, hanno deciso di giocare sulla compattezza d’insieme e su una maggiore coesione tra i pezzi, dove figurano arrangiamenti mai scontati. L’album è indiscutibilmente di pregevole fattura, il che dovrebbe solo inorgoglire noi italiani: siamo tuttora patria di musicisti fenomenali. Certo è che, fino a quando -nel nostro Paese- i sordidi panni dell’ignoranza musicale continueranno ad essere indossati, sarà molto difficile avere un ruolo da protagonisti nella scena internazionale.
Voto all’album: 82/100
TRADIZIONE E INNOVAZIONE: L'ANTITESI DEL ROCK
MARZO 2017
Forse è il caso di fermarsi un attimo, giusto il tempo di riflettere e di fare qualche considerazione. Guardiamoci intorno, prendiamo una boccata d’aria, accantoniamo lo smartphone, sforziamoci di dimenticare per quanto più tempo possibile le frenetiche angosce del mondo moderno: gesti semplicissimi, ma al contempo ormai obsoleti, quasi innaturali. Chiediamoci perché questi sinceri suggerimenti vengano proposti nel contesto impulsivo e spregiudicato di una malandata rubrica rock’ n roll, mentre probabilmente verrebbero accolti con maggiore cordialità dalle confortanti pagine di un epicureo del ventunesimo secolo. Già mi immagino titoli del calibro di “Guida all’atarassia in 12 semplici passi”, piuttosto che “Tetrafarmaco 2.0”, o ancora “Manuale dell’imperturbabile impiegato di banca”. Non male come suggestioni, vero?
Sto scherzando, ovviamente sono pessime.
Ad ogni modo, il suddetto invito a riflettere è da ritenersi valido anche nell’ambito delle chitarre ruggenti, una realtà che non può prescindere da meditazioni dubbiose e malinconiche. Nella fattispecie, ogni rocker che si rispetti dovrebbe avvertire la spontanea esigenza di interrogarsi riguardo al futuro del genere da lui prediletto, nonché di una considerevole parte della sua identità. Non impegnarsi in tal senso significherebbe vivere l’arte -e dunque sé stessi- in misura decisamente limitata; è necessario, in un certo qual senso, restituire al rock tutto ciò che esso ci trasmette, in un reciproco scambio da cui entrambi gli autori trarrebbero sicuro giovamento. Troppo comodo scagliarsi contro la mediocrità dei gruppi contemporanei, nostrani o stranieri che siano, senza adoperarsi in prima persona per invertire il trend, quantomeno cercando di analizzarne i fattori alla base. Ancor più facile può risultare il crogiolarsi negli esempi dei soliti mostri sacri secolari, nonostante la maggior parte di questi palesi un totale esaurimento delle potenzialità creative. Eppure, bisogna ammettere che il vizietto dell’incondizionata fedeltà ai padri fondatori è stato, a più riprese, sostituito dal non meno deleterio atto creativo puramente dissacrante e irrispettoso nei confronti della tradizione pregressa, spesso non animato da un reale intento innovatore, bensì dal mero rifiuto della lezione del passato. In altre parole, un’eccessiva “apertura mentale” -mai vi fu, né mai vi sarà termine più vago- ha portato ad una scomposta frattura del cranio. Una barbarie, insomma. Sarebbe un grave errore concepire l’essenza dell’arte, chiaramente qui intesa come musica rock, nella sua pressoché infinita possibilità sperimentale, senza prima averne abbracciato la sua naturale predisposizione ad essere coltivata in linea con il contesto nel quale è inserita. Ai fini della sopravvivenza dell’intero sistema artistico, è scarsamente consigliabile ricercare il cambiamento senza seguire un logico criterio; un modus operandi non programmato per una fruizione sistematica (cioè esercitata dal suddetto sistema) tende in generale a soddisfare il suo artefice, con l’aggiunta di qualche adepto, escludendo perciò qualsiasi possibile funzionalità all’interno del complesso culturale. Parliamoci chiaro, io sono il primo a desiderare un cambio di marcia nella scena rock internazionale, purché esso sia dettato da scelte stilistiche ponderate, che tengano conto del passato nella misura adeguata; vale a dire, è necessario attingere dai canoni tradizionali ricercando un compromesso tra le sonorità più assodate e quelle dell’ultima ora. Non si può, tuttavia, pensare di alimentare la crescita di questo genere riscrivendone ex novo tutti i princìpi.
Dunque, appurato che lo sdoganamento della sperimentazione musicale senza confini ha portato, nel rock, a risultati alterni, la vera sfida che i suoi interpreti sono chiamati ad affrontare consiste inequivocabilmente nell’oculato utilizzo delle molteplici possibilità armoniche e tecnologiche, sviluppatesi in decenni di crescita esponenziale, sotto tutti i punti di vista.
NON SOLO SPIDERMAN
Chiara Platania 3 E
NOVEMBRE 2016
Fumetto di supereroi: quella cosa, contenente gente che agisce contro le leggi della fisica, che mensilmente o bisettimanalmente attenta al portafoglio di chi si ostina a comprarlo in edicola invece di leggerlo da Internet che è gratis.
Ciao a tutti, io sono Chiara e per questo anno scolastico vi terrò compagnia con una rubrica su grandi poteri, grandi responsabilità e anche altri supereroi, perché non c’è solo l’Uomo Ragno.
Diciamo solo, en passant, che il mondo dei fumetti si estende parecchio oltre quello dei supereroi e non è mia intenzione sostenere che gli altri generi non siano importanti, tutt’altro, ma non posso dedicarmi a tutti insieme e ho deciso di parlare di questo in particolare.
Prima di cominciare a trattare di supereroi, devo chiarire una distinzione che potrebbe tornarci utile. Come in tutta l’editoria, anche i fumetti di supereroi sono editi da case diverse. Le due più famose sono la DC Comics e la Marvel Comics. Per capirsi, la prima è la patria di Batman, Superman e The Flash, la seconda di Spiderman, gli Avengers e gli X-Men. Nonostante molti sceneggiatori e disegnatori abbiano lavorato per entrambe, le due case editrici sono storicamente in lotta e ancora di più lo sono i loro fan. Permettetemi di dire che, anche se preferisco e conosco meglio la Marvel, non vedo il senso di scannarsi per decidere quale sia la migliore. In fondo, per quanto possa piacermi l’Uomo Ragno, Batman è sempre Batman.
Il mio intento è di parlarvi un po’ di quali siano i canoni del mondo dei supereroi (villain, sidekick e compagnia cantante) e di quella parte dell’editoria che li riguarda (come ad esempio le grandi case editrici che citavo poco fa), quindi no, non vi consiglierò le migliori uscite mensili, se siete venuti per questo mi dispiace molto.
Ora la smetto di annoiarvi con premesse lunghissime e arrivo al punto, ovvero i supereroi.
Ma che cos’è un supereroe?
Supereroe: quel personaggio, di solito dotato di abilità o qualità fuori dal comune e talvolta anche di un costume alquanto imbarazzante, che esiste per far sentire insignificante il lettore, dal momento che, mentre lui perde tempo a leggere, il personaggio sta salvando il mondo.
Grazie, dizionario.
Il termine “supereroe” è relativamente recente: data al 1917, poco prima della cosiddetta Golden Age dei fumetti (anni Trenta-Quaranta). A ben pensarci, però, i supereroi sono molto più vecchi del loro nome. È vero, non indossavano costumi imbarazzanti e non parlavano tramite delle nuvolette bianche, ma siamo davvero sicuri che gli eroi di ogni tempo si discostino tanto dal concetto moderno di supereroe?
Sarebbe così sbagliato dire che Achille, San Giorgio, Orlando e molti altri non sono supereroi solo perché all’epoca non si chiamavano ancora così? Personaggi che trascendono i limiti umani sono nella nostra cultura da ben più di novant’anni e sono stati anche d’ispirazione per i nostri supereroi preferiti. Come ci insegna Deadpool, uccide i classici.
Molto bene, quindi i supereroi esistono da un sacco, ma quelli di oggi come sono? Leali, dotati di grande senso della giustizia, onesti, fedeli, affidabili, imbattibili, ecco… non proprio così.
Wolverine è affidabile? Sì, finché non decide di fare di testa propria. Batman è imbattibile? Come no, finché non incontra Bane che gli spacca la schiena. I supereroi di oggi sono imperfetti, commettono errori, spesso molti più delle persone comuni e di certo con conseguenze decisamente peggiori; hanno dubbi sul proprio operato, problemi con la vita privata e una certa difficoltà a inserirsi normalmente nella società. Possiedono abilità che possiamo solo immaginare, ma dobbiamo ricordare che sono pur sempre uomini: Iron Man tra una missione e l’altra ha problemi di alcolismo, Speedy attraversa un brutto periodo di dipendenza dall’eroina e Occhio di Falco è incapace di mantenere una relazione sentimentale stabile.
Il punto è che tutti questi problemi non li rendono meno eroi. Anzi, sono eroi proprio perché nonostante tutto riescono comunque a mettere il bene comune (quasi) al primo posto nella classifica delle priorità. Ok, più o meno.
Quindi la prossima volta che qualcuno vi dirà che state perdendo tempo e soprattutto soldi con fumetti, potete rispondere che state imparando a diventare persone migliori. Non importerà a nessuno se state mentendo, i supereroi fanno anche quello!
Infine, come rubrica-inception, vi presento il primo numero di “Un supereroe che io e/o il mondo conosciamo troppo poco”:
Nome: Animal Man
Casa editrice: DC Comics
Abilità: può “prendere in prestito” le capacità degli animali, come la forza di un tirannosauro o la giocosità di un gattino (non me li sto inventando, lo giuro, Wikipedia dice “The playfulness of a kitten”).
Buoni motivi per leggere di lui/lei: La DC ha rilanciato la sua storyline grazie a Grant Morrison (che tra l’altro l’ha portato anche a rompere bruscamente la quarta parete) e ha ricevuto ottime critiche. È uno dei pochi supereroi in grado di mantenere una famiglia abbastanza stabilmente (no, i Fantastici Quattro non contano) e poi, siamo onesti, non siete anche voi curiosi di vedere che cosa succede quando un uomo prende in prestito la giocosità di un gattino?
DICEMBRE 2016
Ciao a tutti e ben ritrovati alla rubrica più super del nostro giornale!
Nello scorso numero, vi ho parlato degli eroi. Oggi per par condicio, mi dedico ai villain. Per quanti di voi si stiano grattando la testa perplessi davanti a questa parola, ho chiesto di nuovo al dizionario di aiutarmi:
Villain: quel personaggio che nominalmente ce l’ha con l’eroe, il suo pianeta, la sua specie o variazioni sul tema, ma in realtà ha come unico scopo il far avanzare la trama.
Il cattivo della situazione, in poche parole. Il Joker che vedete sopra, in ancora meno parole. Mi chiederete perché non vi abbia detto direttamente che il cattivo si chiama così, senza stare tanto a menare il can per l'aia. Grazie della domanda, ci arriveremo. Intanto vediamo alcuni tipi fissi che si possono individuare tra i villain:
1) Il boss: Kingpin (Marvel), che conosce nuova popolarità grazie alla magistrale interpretazione di Vincent D’Onofrio nella serie Daredevil. Dimostrazione del fatto che si possono creare non pochi problemi ai supereroi anche senza avere superpoteri, il gangster si caratterizza molto spesso come nemico di chi veglia sulla propria città (come Batman) e come fumatore di sigaro. Non chiedetemi perché, probabilmente lo insegnano a scuola di mafia.
2) La femme fatale: Catwoman (DC). Si riconosce perché alle feste di gala si appiccica a un uomo assolutamente inutile e a volte anche non mostruosamente ricco senza apparente motivo. Di solito poi il tizio in questione viene ritrovato mezzo nudo (e morto) in un motel a qualche chilometro di distanza.
3) Lo scienziato pazzo/genio del male: ad esempio… no, dai, avete davvero bisogno di un esempio? C’è chi ostacola l’eroe perché le sue invenzioni non sono perfettamente funzionanti (e qui si vede l’importanza del marchio CE) e chi invece ha solo creazioni perfette. Qui sta il problema, dato che solitamente esse sono armi di distruzione di massa. Tendo a preferire i primi, non saprei spiegarvi il motivo.
4) Il Signore oscuro: muoio dalla voglia di citare Sauron, ma mi devo attenere ai fumetti, quindi dico Dottor Destino (Marvel). Di lavoro conquista il mondo, nel tempo libero di solito si dedica a torture o bricolage (chi siamo noi per giudicare?). Molto spesso ha grossi problemi di relazione con il resto dell’universo, spesso strettamente connessi ai suoi numerosi tentativi di conquista.
5) Lo psicopatico: chi se non Joker? Lo psicopatico si distingue, nel senso che qualora ne vediate uno, non tarderete a riconoscerlo. In generale, ha una certa tendenza omicida e nessun interesse a controllarla.
6) Il cattivo-suo-malgrado: Uomo Sabbia (Marvel), che per quanto si impegni non riesce proprio a uscire dal giro. Molto spesso è dotato di superpoteri, che finiscono per divorarlo psicologicamente. Includerei anche chi, come Killer Croc (DC), è in parte mostro/animale e non riesce a controllarsi.
7) I non-umani: Brainiac (DC). Non intendo tutti gli extraterrestri o robot, ma solo quelli a cui mamma-alieno o il programmatore non ha insegnato che non sta bene sterminare la popolazione di un altro pianeta.
8) L’organizzazione terroristica: HYDRA (Marvel). Spesso di stampo nazista, vantano anche una buona parte di comunisti e mistico-religiosi di vari indirizzi. Di solito cercano di creare casino nel mondo e, se possibile, di prenderne il controllo. Giusto per fare dell’originalità il proprio forte.
9) La nemesi: Bane (DC). Spesso non ha particolari mire a lunga distanza, sente solo il bisogno di dimostrare a un tale supereroe che è migliore di lui. Anche villain delle altre categorie possono essere la nemesi di qualche eroe, ma questi si distinguono perché fanno della perenne antitesi il proprio unico obiettivo.
Infine, abbiamo quei personaggi che non hanno veramente intenti malvagi; semplicemente, fanno uso dei mezzi sbagliati (ed è per questo che ci tengo a distinguere tra cattivi e villain). Ho in mente Magneto, il mutante che vive nell’orribile ricordo di ciò che ha subito da bambino nei campi di concentramento nazisti perché ebreo e, nell’incubo che lo stesso evento possa riproporsi per i mutanti. Evitare che ciò avvenga è una nobilissima intenzione, mentre sterminare il genere umano per riuscirci è quantomeno criticabile.
Ma, alla fine, cosa distingue davvero i villain dai supereroi? Bene e Male sono concetti che venivano usati nei fumetti degli anni Quaranta e possiamo giudicarli ampiamente superati, ma c’è una cosa che non possiamo mancare di notare. Formazioni come la Justice League (DC) o gli Avengers si presentano come unioni di supereroi che riconoscono l’uno l’abilità dell’altro e allo stesso tempo sanno che ci sono delle minacce troppo grandi perché chiunque di loro possa affrontarle da solo. Anche se non è tutto rose e fiori (per nulla, anzi), si basano sul rispetto reciproco e riconoscono un leader solo a livello tattico.
I villain non si uniscono in formazioni simili perché non sarebbero capaci di tenerle in piedi. Possono collaborare (continuando però a tramare alle spalle dell’altro) o avere dei tirapiedi da bullizzare, ma non riconoscono situazioni di parità. Ed è, in conclusione, per questo che i villain vengono sconfitti, non per via di tutte quelle scemenze riguardo al Bene che trionfa sempre!
Torna la rubrica-inception “Un supereroe che io e/o il mondo conosciamo troppo poco”:
Nome: Capitan Bretagna (Brian Braddock).
Casa editrice: Marvel Comics.
Abilità: volo, capacità fisiche e sensi sovrumani, un campo di forza che avvolge il suo corpo.
Buoni motivi per leggere di lui/lei: Al contrario di quanto potrebbe sembrare, Capitan Bretagna non è solo la versione inglese di Capitan America. Brian rappresenta l’essenza stessa dell’Inghilterra, tanto che, una volta, un’incantatrice aveva deciso di ucciderlo, per far sparire in quel modo l’intera Gran Bretagna. Ha lavorato sostanzialmente con tutti i supereroi dell’universo Marvel, oltre che con le versioni alternative di sé stesso provenienti da universi paralleli. Inoltre, corre voce che anche a lui sarà presto dedicata una serie TV, quindi meglio essere preparati!
MARZO 2017
Ciao a tutti e ben ritrovati nel bel mezzo di questo super-articolo! Stavo rileggendo i due elaborati precedenti, quando mi sono accorta di aver nominato molto spesso la Marvel e la DC senza veramente spiegare che cosa accidenti siano, quindi ho deciso di dedicare l'articolo del mese di Marzo proprio a questo: le case editrici di fumetti. Come cominciare se non con una bella definizione?
Casa editrice di fumetti: azienda che lucra su trame lunghissime lasciate puntualmente in sospeso di mese in mese.
Oltre a Marvel e DC, ce ne sono molte altre che dovrò menzionare en passant a causa dei tagli (eh, gente, c’è crisi), come la Image e la Dark Horse, per fare qualche nome.
Le case editrici di fumetti, similmente a tutte le altre, si distinguono tra major (che sarebbero appunto la Marvel e la DC) e indipendenti (più o meno tutte le altre). La cosa divertente è che in realtà le major sono le uniche a non essere indipendenti, in quanto la DC è di proprietà della Time Warner (sì, Warner come Warner Bros.) e la Marvel nientemeno che della Disney! Ok, basta con gli applausi.
Prima che scappiate terrorizzati, lasciate che vi rassicuri: non è mia intenzione raccontarvi tutta la storia delle case editrici dalle origini ai giorni nostri, anche perché potrei addormentarmi sulla tastiera mentre lo faccio. E poi c’è Wikipedia se proprio morite dalla voglia di leggervi ogni singola litigata che c’è stata all’interno degli uffici Marvel e ogni tentativo di reboot da parte della DC. Non c’è bisogno che ve lo racconti io!
Permettetemi, però, di fare almeno qualche presentazione:
Marvel, abbreviazione per Marvel Comics, anche nota come “La Casa delle Idee”, ha dato i natali a Spiderman, Hulk, Wolverine, i Fantastici Quattro, Deadpool, gli X-Men e potrei andare avanti ma sarà meglio che mi fermi.
DC, abbreviazione per DC Comics, in cui “DC” sta per Detective Comics (sì, lo so che così risulta Detective Comics Comics, ma non posso farci nulla, lamentatevi con il proprietario) è l’editrice di Batman, Superman, Wonder Woman, le Lanterne Verdi, Flash (se conoscete la serie TV, è lui) nonché del fumetto originario di V per Vendetta e Watchmen.
Questi sono i lettori, queste sono le case editrici. Piacere. Piacere.
Ok, ora che vi conoscete possiamo entrare nel vivo della questione. Nello specifico, parliamo dell’eterna rivalità, o presunta tale, che divide queste case editrici. È innegabile che tra di loro ci siano grandi differenze e che, in alcune cose, una delle due abbia ottenuto migliori risultati.
La DC ha fatto tutto per prima. Il primo supereroe? Superman. La prima squadra di supereroi? La Justice Society of America (non la Justice League, che è venuta dopo), sempre della DC. Metà dei supereroi Marvel sono stati creati dalla DC e copiati dall’altra. Come fa ad arrivare sempre per prima, essendo nata soltanto cinque anni prima della sua rivale? Intuito, probabilmente.
La Marvel ha una gestione del multimediale decisamente migliore. Solo negli ultimi anni la DC si è svegliata e si è resa conto che le sue strategie non rendevano quanto quelle della Marvel. Nel frattempo l’altra aveva già creato un universo cinematografico di tutto rispetto con tanto di merchandising e incassi da far invidia persino a Harry Potter. Come ci sono riusciti? Intuito, probabilmente.
Potrei andare avanti per un bel po’ ad elencarvi le differenze tra le due o in quali cose una è migliore dell’altra. Potrei raccontarvi gli approcci completamente diversi che hanno all’idea stessa di supereroe e al suo significato. Potrei spiegarvi le storie di testate che nessuno più ricorda e che alla fine non sono poi così importanti. Potrei (ma non lo farò, niente paura) descrivervi le infinite controversie che ho avuto il piacere di leggere su Internet in cui persone che neanche si erano mai viste arrivavano a insultarsi per decidere quale fosse la migliore (ah, il potere della rete).
Eh sì, perché non si possono leggere tranquillamente i fumetti di entrambe oppure preferirne una e basta. Se te ne piace una, l’altra deve fare ovviamente schifo e tutti quella che la seguono devono essere degli stupidi che non capiscono niente di fumetti, supereroi e magari anche della vita, dell’universo e di tutto quanto.
Personalmente, gli unici fumetti che abbia mai comprato con una certa regolarità sono Marvel, ma di fianco a quelli nella mia libreria c’è una bellissima raccolta di storie di Batman contro Ra’s al Ghul da cui non mi separerei per nulla al mondo. La parte ridicola dell’intera contesa è che gli autori delle due editrici non la sentono per davvero.
Grandi nomi, come Grant Morrison (che ho già citato quando parlavo di Animal Man) e i grandi Steve Ditko (uno dei creatori di Spiderman) e Jack Kirby (uno dei creatori di Capitan America) hanno lavorato indipendentemente per entrambe.
Alla fine degli anni Novanta le due case editrici decisero addirittura di far uscire dei fumetti che avevano come protagonisti delle fusioni di personaggi dell’una e dell’altra (Amalgam Comics).
Due clamorose dimostrazioni della futilità della questione, secondo me, poi voi pensatene ciò che volete.
Per chiudere in bellezza, l’attesissimo ritorno di “Un supereroe che io e/o il mondo conosciamo troppo poco”:
Nome: Etrigan/Jason Blood (il primo vive nel corpo del secondo, che può decidere di trasformarsi in lui all’evenienza)
Casa editrice: DC Comics
Abilità: Etrigan è un demone dotato di forza sovrumana, guarigione rapidissima, controllo della magia, sensi, agilità e velocità iper-sviluppati, telepatia, preveggenza. Ah, e spara raggi di energia o fuoco infernale nel tempo libero.
Jason, invece, è un ottimo spadaccino o combattente a mani nude, conosce la magia ed è praticamente immortale in quanto “ospite” di Etrigan. Buoni motivi per leggere di lui/lei: D’accordo, il demone è leggermente troppo potente, ma ogni tanto ci vuole qualcuno che possa effettivamente scontrarsi con Superman e Wonder Woman durando più di ventiquattro secondi! La storyline di questi due è piuttosto intricata, con una serie di storie d’amore abbastanza distorte, tradimenti e rapporti alquanto complicati con il fratello di Etrigan, Merlino (sì, proprio lui), ma devo ammettere che sembra piuttosto interessante. Non siete convinti? Ora ci penso io: Etrigan fa parte dei cosiddetti “rhyming demons”, cioè parla sempre in rima. Ripeto: sempre in rima. Non vi basta come buon motivo?
POP AROUND THE CLOCK
Francesco Valero 2 G
NOVEMBRE 2016
Salve a tutti cavourrini!
Anche quest’anno mi occuperò della rubrica “Pop around the clock”, che tratterà (come l’anno passato) l’argomento della musica pop. In questo primo numero ho intenzione di parlare del nuovo singolo di Robbie Williams, “Party like a Russian”, pubblicato lo scorso 30 settembre. Questa canzone è stata estratta dal suo nuovo album “Heavy Entertainment Show” uscito il 4 novembre 2016.
Nella canzone, Robbie Williams, oltre a ironizzare sulle abitudini dei Russi, rivolge sarcastiche critiche al presidente russo Vladimir Putin. Ciò è particolarmente evidente nella strofa iniziale in cui il cantante dice: “It takes a certain kind of man with a certain reputation to alleviate the cash from a whole entire nation” che significa ” ci vuole un certo tipo di uomo con una certa reputazione per ridurre i soldi di un’intera nazione”. Queste parole di Williams non sono state accettate di buon grado dai Russi; infatti, il cantante è stato accusato di aver offeso il presidente Putin e secondo i media locali rischierebbe di non potersi più esibire nel Paese. In proposito, sui media inglesi Robbie Williams ha negato l’intento denigratorio della sua canzone ed ha precisato che il fine di questo brano è di sottolineare il carattere festaiolo dei russi. Nel video ufficiale del brano il cantante interpreta un oligarca russo accompagnato da un gruppo di ballerine in una villa maestosa.
Alla prossima!
DICEMBRE 2016
I BELIEVED IN FATHER CHRISTMAS
Ben ritrovati cavourrini! In questo numero, voglio parlarvi di una canzone natalizia (uscita nel 1974), cantata da Greg Lake, che sfortunatamente è venuto a mancare lo scorso 7 dicembre. Lake è stato un noto cantante inglese, membro del gruppo Emerson, Lake & Palmer, che invece nel brano in questione, per la sua prima e unica volta canta da solista. In un testo contro la commercializzazione del Natale, spiega come esso venga raccontato ai bambini; ciò si può notare quando Lake canta: "They sold me a Silent Night, and they told me a fairy story, Till I believed in the Israelite and I believed in Father Christmas" Ossia: "Mi hanno venduto una notte silenziosa, e mi hanno raccontato una favola, fino a quando ho creduto nell’ Israelita e ho creduto in Babbo Natale”. Il video della canzone è stato girato tra Palestina e Giordania. All’interno dello stesso, figurano però anche immagini relative alla guerra del Vietnam, che, in seguito, hanno suscitato critiche per il fatto che non fossero pertinenti ad un brano natalizio. Greg Lake, con il suo gruppo musicale, rimarrà uno dei cantanti inglesi che più ha influenzato gli anni ’70.
MARZO 2017
"ALL NIGHT-PAROV STELAR"
Salve a tutti cavourrini!
Leggendo questo articolo, vi starete sicuramente chiedendo il motivo per cui ho postato la foto del ballerino della pubblicità della Tim. Ebbene, lui si chiama Sven Otten e nello spot balla sulle note di “All Night” di Parov Stelar. Questi è un Dj austriaco e la canzone, contenuta nel suo album “The princess” uscito nel 2012, sta avendo grande successo in Italia in quanto colonna sonora dell’attuale campagna pubblicitaria dell’azienda telefonica dal 26 dicembre scorso. Il Dj, il cui vero nome è Marcus Fureder, produce musica dal 2000 ed ha fondato anche la Parov Stelar Band. Le sue canzoni sono già da tempo utilizzate per le pubblicità, anche perché sono molto “orecchiabili”. Parov Stelar è considerato l'iniziatore di un nuovo genere musicale, denominato "Electro Swing", poiché è ispirato al filone degli anni trenta noto per il tipo di esecuzione delle note con un ritmo "saltellante" o "dondolante" (swing in inglese). Ne è conferma il fatto che “All Night” è un arrangiamento della canzone del 1938 “Oriental Swing”, di Lil Hardin Armstrong, pianista e compositrice, moglie del famoso jazzista Louis Armstrong.
NE' GIUSTO NE' SBAGLIATO
Isabel Savioli 4 A
DICEMBRE 2016
Uno dei miei libri preferiti è “Né giusto né sbagliato”, scritto da Paul Collins nel 2004.
La storia è narrata in prima persona; è infatti l’autore stesso il protagonista del libro, che diventa un ibrido tra il genere del romanzo e quello del diario. Ciò permette ai lettori di entrare nella sua vita e di provare le stesse emozioni.
Paul ha un lavoro che gli dà soddisfazioni, una bella casa su due piani, una moglie pittrice e un figlio di tre anni, Morgan; con quest’ultimo ha un rapporto molto stretto, tanto che persino da poche righe d’inchiostro si può percepire tutto l’amore di un padre per suo figlio.
Morgan, secondo i genitori, ha un carattere un po’… particolare. Legge tutto quello che gli capita a tiro, può ripetere la stessa frase in continuazione, ma a parte ciò si chiude in silenzi ermetici e spesso non sembra neanche notare la presenza di altre persone. Dopo un po’ Paul e sua moglie capiscono che c’è qualcosa di più profondo, e dopo aver consultato uno specialista scoprono che Morgan è autistico.
A differenza di come molti potrebbero credere, la narrazione non si fa mai tediosa, anzi, i termini medici compaiono raramente e quando lo fanno non sono mai troppo complicati, proprio perché l’autore non ha voluto scrivere un manuale medico sull’autismo -di quelli ce ne sono tanti- ma ha raccontato il rapporto speciale tra lui e il figlio, i suoi modi di comunicare e di vedere il mondo assai diversi dalla norma, ma non per questo sbagliati. Paul inizia un percorso di formazione grazie al quale scoprirà molto sull’autismo e su sé stesso; si documenta su questa particolarità, di cui gli esponenti più famosi sono raccontati tra un capitolo e l’altro e si preoccupa della collocazione che spetta alle persone diverse sulla crudele scala sociale. Il messaggio che arriva al lettore, secondo me, è ben riassumibile dall’affermazione dell’autore stesso: «E comunque non è come pensano loro: non è una tragedia, non è una triste storia, e neppure il film della settimana. È la mia famiglia».
ANIMALI FANTASTICI e DOVE TROVARLI
Samuele Bergamini 4 H
DICEMBRE 2016
Dopo ben cinque anni l’attesa è finalmente terminata: ritorna David Yates dietro la macchina da presa e, con lui, l’ultimo film ispirato ai romanzi di J. K. Rowling. E questa volta il mondo magico si arricchisce di un cast anch’esso “incantato”.
Prima di iniziare l’analisi del film di questo mese, ci tengo a puntualizzare che non ho avuto modo di leggere né l’ultimo né i precedenti romanzi della scrittrice britannica, ma non si può dire lo stesso dei film di Yates, che ho visto e rivisto più volte. Cercherò quindi di analizzare la pellicola al meglio, tralasciando -non me ne voglia il lettore- analogie o differenze con l’omonima opera bibliografica.
Detto questo, spero che siate pronti per avventurarci insieme in questo nuovo turbine di magia targato Rowling/Yates.
Veniamo immediatamente catapultati su una nave, nei pressi della New York Bay, all’epoca del proibizionismo statunitense. Qui facciamo la conoscenza del nostro protagonista: Newt Scamander (interpretato dal premio Oscar al miglior attore 2015 Eddie Redmayne), un mago, o meglio un magizoologo, che intende trattenersi negli Stati Uniti per breve tempo. Una netta mutazione sul piano spazio-temporale quindi, che può sconvolgere i più appassionati, probabilmente nostalgici, del classico binario 9 e ¾ dei film precedenti. Infatti, benché il mondo magico sia il medesimo, vi sono moltissime novità. Una di queste si riscontra nella vita dei maghi americani, costretti a vivere nell’ombra, a mantenere un basso profilo, per preservare un’apparente pacifica coesistenza con i No-Mag (equivalente yankee di “Babbano”). Ignaro di questo cauto stile di vita, Newt getterà mezza città nel Caos, facendo uscire inavvertitamente alcune delle sue creature da un’improbabile valigia. A seguito di questo guazzabuglio, il nostro ricercatore di animali fantastici fa conoscenza prima con Jacob Kowalsky (interpretato da Dan Fogler), un No-Mag squattrinato e aspirante pasticciere, e successivamente con le sorelle Tina (Katherine Waterson) e Queenie (Alison Sudol) Goldstein, impiegate del Magico Congresso degli Stati Uniti. Si crea dunque un quartetto molto dissimile dalla classica triade Harry-Ron-Hermione, che ad ogni modo funziona egregiamente. I personaggi sviluppano numerosi interludi comici e creano momenti romantici, facendo al contempo apprezzare le differenti personalità all’interno del gruppo. Ma è proprio parlando dei personaggi che si giunge ad una delle pochissime note (se non l’unica) di demerito di questo film: il carisma del protagonista.
Esso è pressoché assente e credo sia dovuto all’interpretazione dell’attore…Un grande attore, ma bisogna ammettere che Eddie Redmayne è il tipico interprete senza vie di mezzo: può piacere o non piacere, senza compromessi. Personalmente, ritengo che sia un attore geniale, con un’espressività facciale e corporea molto teatrale, particolarmente adatta all’interpretazione di personaggi eccentrici e al contempo introversi, timidi e sensibili. Proprio come il nostro Newt Scamander, per intenderci. La sua timidezza tende a farlo oscurare, ad esempio, a confronto con l’antagonista Percival Graves (interpretato da Colin Farrell), che invece di carisma ne ha da vendere. Tuttavia, le vere star del film sono le creature fantastiche di Scamander, create dal “mago” degli effetti speciali Tim Burke. Alcune appaiono mostruose e possenti (come il Tuono alato), altre tenere ed innocenti (si veda lo Snaso, una sorta di piccolo ornitorinco cleptomane). Questi “animali fantastici” sono accuditi da Newt con una dedizione ed un’empatia fuori dal comune, che consentono allo spettatore di affezionarsi ad essi. Non manca inoltre l’azione, che condisce il film dalle primissime scene sino allo scontro finale. “Animali fantastici e dove trovarli” è dunque una centrifuga di fantasy, noir, action e sentimentale che funziona alla grande. E il cast, nel suo insieme, conquista e convince. Non ci resta che aspettare il sequel e che il binomio Rowling/Yates ci permetta di sognare, ancora una volta...
SPECIALE ACADEMY AWARDS, NOTTE IN BIANCO per GUARDARE le STELLE
Samuele Bergamini 4 H
MARZO 2017
Ci siamo. È una tradizione che si ripete ogni anno. Ci si ritrova a casa di amici, con una tazza di caffè bollente, pronti per trascorrere una notte in compagnia delle stelle. Quelle stelle che ci fanno sorridere, quelle stelle che ci fanno emozionare, piangere, cantare, ballare. Ma soprattutto che ci fanno vivere al di là della nostra immaginazione. È una notte magica, in cui tutti i cinefili del mondo hanno gli occhi puntati su un indirizzo che ormai è divenuto leggenda: 6801 Hollywood Boulevard, Hollywood, California, sede del Sancta Sanctorum della Settima Arte, il Dolby Theatre. Ed è proprio qui che inizia il nostro viaggio, attraverso la 89ª edizione degli Academy Awards.
“There is a shade of red for every woman.” Non possiamo iniziare questo magico itinerario se non dal simbolo dell’Academy per eccellenza: il Red Carpet. Ben 500 piedi (circa 152 metri) di tessuto rosso scarlatto aspettano di essere calpestati dalle più celebri star del mondo del cinema, le quali ogni anno sfoggiano abiti dallo stile a dir poco sublime (talvolta ridicolo o eccessivo ). E quest’anno non si sono di certo risparmiate, investendo il tappeto rosso losangelino con un’ondata di classe, ma al contempo di sobrietà. Come non citare la splendida Naomie Harris con il suo abito candido o la divina Emma Stone, brillante di un preziosissimo abito color oro, che la rende subito regina del Red Carpet. In ambito maschile, occorre senza dubbio menzionare l’eleganza di Ryan Gosling, indossatore di uno stiloso smoking di Gucci, e la raffinatezza del cantante e attore Justin Timberlake e di sua moglie, Jessica Biel. Ed è proprio Timberlake a dare il via alle danze al Dolby Theatre, eseguendo il suo famosissimo brano “Can't Stop the Feeling!” tra le fila della platea, intorno alle 2.30 di notte secondo il nostro amatissimo fuso orario. Inizia quindi a tutti gli effetti la cerimonia degli Academy Awards, la quale vede subito come protagonista Jimmy Kimmel, nei prestigiosi panni di “host” della serata. Decisamente degni di nota i suoi interventi dissacranti e le mirate frecciatine nei confronti delle star presenti in platea, primo fra tutti Matt Damon, i cui “scontri” con il mattatore Kimmel diventano subito il tormentone della serata. Altri due gesti da ricordare sono sicuramente il tweet, ormai diventato virale, diretto a Donald Trump, in cui viene chiesto al Presidente se sia sveglio per vedere la cerimonia, e la richiesta di una standing ovation per la Diva Meryl Streep, ovazione che non si è di certo fatta attendere.
“Il viso è una tela dove poter creare un dipinto.” Tralasciando per un attimo la prima statuetta della serata (quella al migliore attore non protagonista), di cui parleremo in seguito, la prima vera grande soddisfazione giunge con la premiazione per il Miglior Trucco e Acconciature. A vincere è infatti la coppia Alessandro Bertolazzi - Giorgio Gregorini, accompagnati da Christopher Nelson, in rappresentanza del film Suicide Squad. Quasi commoventi le parole di Bertolazzi sul palco, che dichiara di aver aspettato circa cinquant’anni per tenere tra le mani la famosa statuetta, la quale, al termine del discorso, è stata dedicata a tutti gli immigrati. Nota di merito anche a Colleen Atwood, già vincitrice di ben tre Academy Awards, che anche quest’anno riesce a strappare dalle mani dei concorrenti il prestigioso premio, grazie ai suoi bellissimi abiti di scena di Animali fantastici e dove trovarli. Infine, sempre rimanendo nell’ambito artistico, bisogna ovviamente citare la vittoria per la Migliore Scenografia dei coniugi Wasco (David e Sandy Reynolds), i quali, assieme al vincitore per la Migliore Fotografia, Linus Sandgren, sono riusciti a creare un autentico dipinto all’interno del quale i due protagonisti di La La Land possono danzare avvolti da fasci di luce e colori straordinari.
“If it can be imagined, it can be put on screen.” Passiamo ora ad una categoria che personalmente adoro e che a mio parere gioca un ruolo fondamentale nelle opere cinematografiche di tutti i giorni: quella dei Migliori Effetti speciali. Molto spesso infatti ci si dimentica che questi ultimi sono pressoché onnipresenti in qualsiasi film, anche se “invisibili” e rappresentano proprio la linea di demarcazione tra finzione cinematografica e realtà. La vera magia del cinema alla fine può essere cercata anche lì, tra Green Screen e Facial Motion Capture. E quest’anno, ad ascendere all’Olimpo dei Visual Effects è stato il team capitanato dal già due volte premio Oscar Robert Legato, per il film Il Libro della Giungla. Benché per questa categoria avrei preferito un trionfo degli Effetti speciali adoperati in Doctor Strange, non si può di certo svalutare il lavoro di Legato, maestro indiscusso già in capolavori come Hugo Cabret e Titanic. Dalla maestria visiva passiamo alla maestria sonora, elogiando il “maledetto” Kevin O’ Connell, ovvero l’uomo che ha ottenuto più candidature nella storia degli Academy (ben 21), per film dal calibro di Top Gun e Il Patriota, senza mai riuscire a vincere l’Award. La maledizione però si può finalmente considerare spezzata: O’Connell riesce finalmente ad aggiudicarsi una statuetta tra la gioia dei presenti, per aver diretto la supervisione sonora del capolavoro di Mel Gibson, Hacksaw Ridge, film che grazie al neozelandese John Gilbert riesce a portare a casa anche il premio al Miglior Montaggio. Il premio al Miglior Montaggio sonoro va invece al canadese Sylvain Bellemare per il suo prezioso contributo al film Arrival, pellicola che secondo il mio parere avrebbe meritato molto di più durante la Notte delle Stelle, anche alla luce del fatto che si è aggiudicata il prestigioso premio ARCA Cinemagiovani alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
“Rows and floes of angel hair…and ice cream castles in the air…” Queste sono le prime splendide rime di “Both Sides, Now”, la colonna sonora cantata dalla bellissima voce di Sara Barreilles del video “In Memoriam” di questa 89ª edizione, dedicato alle personalità legate al mondo del cinema scomparse nell’anno precedente. Si è trattato senza dubbio del momento più toccante di tutta la serata, capace di far smuovere le lacrime a noi spettatori e anche alla stessa cantante, la quale ha tenuto una performance a dir poco straordinaria. Oltre che per lo scontato saluto a Debbie Reynolds, a sua figlia Carrie Fisher e a Prince, ho provato una profonda tristezza dopo essere venuto a conoscenza della scomparsa di Garry Marshall, creatore di Happy Days nonché regista di Pretty Woman, e di quella del giovanissimo attore russo Anton Yelchin, deceduto a seguito di un incidente stradale presso la sua villa di L.A. Decisamente intensa è stata anche la performance di Sting che sulle note della sua The Empty Chair, dal film-documentario Jim: The James Foley Story, ricorda e omaggia il giornalista americano James Foley, catturato e ucciso dalle milizie dell’ISIS. La traccia inoltre aveva ottenuto la nomination come Migliore Canzone Originale, premio poi assegnato a Justin Hurvitz, autore della ormai celebre City of Stars (La La Land), che nella medesima serata riesce a vincere anche la statuetta per la Migliore Colonna Sonora, compiendo un’impresa riservata a pochi eletti. Devo ammettere che speravo in una vittoria di Nicole Kidman per il film Lion, già Migliore Attrice nel 2003, che con una vittoria per la sua, a mio parere, superba interpretazione, avrebbe potuto consacrare la sua già soddisfacente carriera attoriale. Ma passiamo ora ai “magnifici cinque”, i migliori attori protagonisti candidati per quest’anno. Benché numerose statistiche indicassero come superfavorito Ryan Gosling (La La Land), a rubare scena e statuetta è Casey Affleck, per la sua interpretazione nel già citato Manchester by the Sea. Il “piccolo” di casa Affleck riesce quindi ad innalzare il prestigioso premio, supportato anche da un lunghissimo abbraccio da parte del fratello Ben, già due volte Premio Oscar.
Adoro Ben, adoro Casey e mi piacerebbe vederli più spesso lavorare insieme, perché possono nascere dei veri e propri capolavori, come ci hanno già insegnato film del calibro di Will Hunting e Gone Baby Gone. D’altronde nel mondo del cinema l’equazione “fratelli=successo” è quasi sempre verificata. Basti pensare ai fratelli Coen (vincitori di quattro Premi Oscar) o alle sorelle Wachowski (creatrici di Matrix e Cloud Atlas) o, perché no, anche ai fratelli Warner, che hanno reso Hollywood una vera e propria “land of opportunities”. Opportunità che sono state concretizzate al meglio dalla meravigliosa Emma Stone, che riesce a vincere la statuetta alla Migliore Attrice Protagonista, nei panni della aspirante attrice Mia Dolan in La La Land, scavalcando pietre miliari dell’acting statunitense quali Natalie Portman e Meryl Streep. Un’interpretazione stupenda la sua, capace davvero di far sognare e sperare che i propri sogni diventino realtà, così come è stato per lei in questa magica notte.
“And the Academy Award goes to…” Non si può certo dire che questa 89ª Edizione sarà dimenticata, sia per le sue importanti vittorie (anche a livello di ratings, i quali hanno sfiorato i 33 milioni di spettatori), sia per la premiazione finale della serata, teatro della più grande gaffe della storia dell’Academy. Ormai credo che tutti sappiano di cosa sto parlando: la consegna dell’Oscar al Miglior Film. Faye Dunaway e Warren Beatty aprono la fatidica busta, si guardano titubanti ed infine pronunciano “La La Land” tra il tripudio generale. Qui in Italia sono circa le sei di mattina quando i produttori e tutto il cast del film salgono sul palco e cominciano i ringraziamenti, ma proprio nel bel mezzo di uno dei discorsi il produttore Jordan Horowitz si interrompe e dice che l'Oscar va a un altro film: Moonlight. Un disguido enorme quindi, causato a seguito della consegna della busta sbagliata a Beatty, mentre quella giusta si trovava nelle mani di Kimmel. Quest’ultimo, al termine della serata saluterà il pubblico, promettendo di “non tornare mai più”. Un finale senza dubbio particolare, che lascia addosso un turbine di emozioni. Perché, se da un lato è vero che la troupe di La La Land si è vista letteralmente depredata del proprio premio, dall’altro non si può neanche considerare una serata drammatica, in quanto il film porta a casa ben sei statuette. Infine non si può non essere felici per la vittoria di Moonlight, che segna un profondo riscatto della comunità afroamericana in quel di Hollywood, rispetto alle due edizioni precedenti. Ultime note di merito per Il Cliente, del regista iraniano Asghar Farhadi (che “ruba” la statuetta di Miglior Documentario al nostrano Gianfranco Rosi e al suo Fuocoammare, lungamente supportato da Meryl Streep), vincitore come Miglior Film Straniero, per Zootropolis, vincitore come Miglior Film d’Animazione e per O.J:Made in America.
Anche quest’anno quindi, il Dolby Theatre non si è fatto mancare nulla: musica, splendide vittorie e colpi di scena, che hanno contribuito a rendere ancora più magica un’arte che già lo è di per sé. Io non posso far altro che consigliarvi di vivere al meglio quest’arte ogni giorno e di restare svegli una notte all’anno per percepire questa magia. Ne vale davvero la pena. “Every movie needs a screen…but first, it needs a screenplay” Siamo nel vivo della serata e ci stiamo avvicinando sempre di più alle premiazioni più attese. Prime fra tutte, almeno secondo il mio parere, quelle per la Migliore Sceneggiatura. Ho adorato, invero, il fatto che nella precedente edizione gli autori abbiano deciso di premiare per primi proprio gli sceneggiatori, in quanto ritengo che un film per funzionare abbia bisogno, prima di tutto, di una testa pensante, una matita e un foglio bianco. Il cinema è soprattutto questo: creatività. È possedere una buona idea, anche semplice, nella propria mente e saperla rielaborare per far scaturire un capolavoro. Esattamente come ha fatto Kenneth Lonergan, vincitore dell’Academy Award alla Migliore Sceneggiatura Originale per Manchester by the Sea, descrivibile in poche parole come uno dei migliori “drama film” degli ultimi cinque anni. Ma a volte le sole idee non bastano, è necessario possedere anche lo stimolo giusto. E quale ambiente potrebbe essere più stimolante della prestigiosa Università di Yale? Nessuno, secondo il giovane Tarell Alvin McCraney il quale, assieme al co-autore e regista Barry Jenkins, riesce a vincere la statuetta per la Migliore Sceneggiatura non Originale, grazie alla sua tesi di laurea in drammaturgia, dramma che ha ispirato il film Moonlight. E quando finalmente lo sceneggiatore ha terminato di trascrivere le sue idee più geniali, non può far altro che consegnare il copione al regista, una sorta di “demiurgo”, di artigiano che ha il solo compito di lavorare al meglio tutto il materiale che ha a disposizione per partorire un capolavoro. E questa descrizione si addice perfettamente alla figura del giovanissimo Damien Chazelle, vincitore nella sua categoria per la direzione di La La Land. Premetto che non sono un grandissimo fan di Chazelle, più che altro per la poca varietà di tematiche affrontate nei suoi film (sulle tre pellicole da lui girate, tre sono a tema musicale), ma non si può non riconoscere la bravura e soprattutto la tecnica di un regista che ha ancora moltissima strada da fare, ma che potrebbe tranquillamente ritornare sul palco del Dolby Theatre da vincitore.
“What I see in the characters, I first try to see in life” Giungiamo dunque alla categoria probabilmente più prestigiosa di tutta la cerimonia. Circa 200 Paesi si stanno ponendo la stessa domanda: Quali attori hanno svolto la migliore performance nell’anno passato? E la prima risposta non si fa di certo attendere, con Mahershala Ali, il primo attore musulmano a vincere un Oscar, nello specifico quello al Miglior Attore non Protagonista, per la sua interpretazione dello “spacciatore buono” Juan, nel film Moonlight. Passando alla sponda femminile, la vittoria per l’omonima statuetta spetta a Viola Davis, per aver saputo immedesimarsi con una teatrale maestria nei panni di Rose Maxson, nel film diretto da Denzel Washington, Barriere.
AN ASTRONAUT'S GUIDE TO LIFE ON EARTH
Isabel Savioli
MARZO 2017
Quando si è piccoli, uno dei mestieri più gettonati è quello dell’astronauta, ma crescendo sono in pochi quelli che mantengono il desiderio di andare nello spazio. Per diventare astronauti, infatti, bisogna prima affrontare un percorso di formazione lungo e tortuoso, con la consapevolezza che esiste una grande probabilità di non riuscire a raggiungere l’obiettivo. Per fare questo mestiere, però, oltre ad avere una solida preparazione tecnica alle spalle, bisogna soprattutto avere la mentalità da astronauta. Che cosa vuol dire? Lo spiega nel suo libro “An astronaut’s guide to life on Earth Chris Hadfield, che sia nel 1995, sia nel 2001 ha preso il volo per conto della NASA e, in seguito, ha continuato a lavorarvi come direttore operativo dalla Terra. Hadfield racconta la sua storia da quando, a 9 anni, ha visto il primo uomo sbarcare sulla Luna e ha deciso di diventare il prossimo, fino al momento in cui effettivamente lo è diventato. La sua biografia, infatti, gli serve da trampolino per un altro argomento: come si pensa da astronauti. Quando si è nello spazio bisogna sapersi gestire indipendentemente ed essere in grado di prendere decisioni importanti nel minor tempo possibile, quando qualcosa va storto; nessuno può aiutarti in orbita, quindi bisogna essere sempre pronti ad adattarsi a situazioni nuove ed impreviste, e quando si è in pericolo bisogna sempre mantenere la calma e cercare una soluzione efficace (in questi casi per un astronauta agitarsi significherebbe mettere a rischio la vita). Condividere uno spazio ristretto con altre persone può inoltre voler dire imparare ad avere grande pazienza e senso di collaborazione. Essendo una “Guide to life on Earth”, cioè per la vita sul la Terra, tutti possono cercare di adottare questa mentalità ed essere astronauti terrestri; piccoli cambiamenti nel nostro modo di pensare e di vedere il mondo possono dare grandi risultati ed essere in primo luogo utili a noi stessi. La narrazione non è mai noiosa e i consigli mai banali, proprio perché derivanti da esperienze concrete; sembra di essere di fianco all’autore quando descrive il lancio e quasi si prova la stessa apprensione, quando racconta tutti i test che si devono superare per essere scelti come astronauti. Sulla scia dell’idea che i limiti vadano superati, il libro è disponibile solo in inglese. Buona lettura.